La vicenda giudiziaria che ha coinvolto una coppia di cittadini nigeriani, inizialmente accusati di riduzione in schiavitù, si è conclusa con una condanna a sei anni di reclusione per entrambi. La sentenza, pronunciata dalla Corte d’assise di Lecce, ha previsto una riqualificazione del reato, su richiesta dei giudici presieduti da Pietro Baffa, rispetto alla richiesta iniziale di 13 anni avanzata dalla pubblica accusa.
Secondo quanto emerso durante il processo, la vittima, una giovane nigeriana, era stata indotta a lasciare il proprio Paese con la prospettiva di una vita migliore in Italia. Una volta giunta sul territorio nazionale, però, sarebbe stata costretta a prostituirsi tra le province di Lecce e Brindisi, sotto minaccia di morte rivolta sia a lei che ai suoi familiari. La donna, priva di mezzi di sostentamento e lontana dai suoi cari, avrebbe vissuto in uno stato di totale soggezione psicologica.
L’atto d’accusa indicava episodi di violenza e coercizione fisica, tra cui l’uso di legacci per mani e piedi e la detenzione in una stanza vuota, privandola di cibo e acqua. Inoltre, i due imputati si sarebbero appropriati dei proventi dell’attività di prostituzione, per un totale di 3.500 euro. I comportamenti contestati avrebbero avuto luogo in un clima di intimidazione costante, con la vittima sottoposta a continue vessazioni.
La sentenza conferma l’impegno della magistratura nel contrastare le forme di sfruttamento e coercizione, pur riconoscendo i margini giuridici per una diversa qualificazione delle condotte contestate. Il caso evidenzia inoltre la necessità di interventi sempre più strutturati per la protezione delle vittime di tratta, spesso invisibili e vulnerabili.